IMMAGINI DA IMMAGINARE

di Maurizio Sciaccaluga

Fin dagli esordi, da quando ha iniziato a esporre e a proporsi come artista, inserendosi immediatamente in quella corrente figurativa che si è oramai affermata quale scelta originale e vincente del made in Italy contemporaneo, Dany Vescovi ha puntato il suo obbiettivo sulla natura. Animali e piante, come nella miglior tradizione del National geographic. Ripresi però talmente da vicino, e con una tecnica affine a quella delle macroinquadrature fotografiche, che spesso corpi e livree perdono le loro connotazioni zoomorfe per trasformarsi in pure distese di colore, in campiture misurate e trasparenti degne della ricerca astratta della prima metà del Novecento. Visti da un palmo e raffigurati con tale e tanta indiscrezione che petali e corolle, ingigantiti a dismisura dal mirino della pittura, sembrano abbandonare ogni riferimento al mondo botanico per richiamare piuttosto alla mente stesure e sfumature, vibranti e passionali, dei grandi maestri storici dell'abbandono della figura. Di recente, da un paio d'anni a questa parte, l'artista ha aggiunto alla ripresa in macro, ancora strumento principe del suo lavoro, una serie di ulteriori elementi in grado di stornare l'attenzione dello spettatore dai soggetti naturalistici, e d'indirizzarla verso problematiche prettamente pittoriche tipo i rapporti tra le superfici, la contrapposizione dei colori, la sovrapposizione tra tonalità e stati d'animo. Se prima una serie di righe verticali è andata interrompendo la continuità della descrizione, simulando sulla tela una sorta di disturbo mediale, quasi a voler suggerire lo status dell'immagine quale riproduzione né realistica né scientifica, in un secondo momento l'autore ha addirittura cominciato a sfalsare tra loro i piani dei quadri, facendoli scorrere verso l'alto o verso il basso lungo quelle rette rigorose e multicolori che avevano cominciato a sezionarli. Infine, come in un puzzle geometrico senza possibile soluzione, ha invertito e mescolato le varie parti, tradendo così – e definitivamente uccidendo – il rigore, l'unità e la sacralità della figura. L'immagine c'è, è evidentemente presente, ma è totalmente da ricomporre, da ricostruire, da rivitalizzare. Più che un'immagine reale, preponderante, narrativa, è ora un'immagine da immaginare. E così, sul finire del 2003 – un anno che ha sancito con chiarezza l'imbarazzante e tardivo dietrofront di chi aveva rifiutato e condannato senza appello la figurazione narrativa, un anno che ha registrato la retromarcia di tutti coloro i quali avevano sposato il concettuale rifiutando la pittura a soggetto – i lavori di Vescovi si trovano a essere già leggermente spostati in avanti rispetto alle banali mode del momento. Possono certo, e devono, essere detti figurativi, dato che il punto di partenza è sempre il mondo floreale, visto che il loro ambito più generico è comunque quello d'una natura morta rivisitata e ridiscussa secondo le conquiste del terzo millennio, ma la loro catalogazione non appare più così scontata e automatica. Alle semplici e immediate logiche della riproduzione riconoscibile aggiungono un'incredibile serie di elementi di disturbo – geometrie, astrazioni, medialismi, giochi da computer grafica – che li proiettano in una situazione di border line, che li confinano in quella terra di tutti e di nessuno dove spesso si sviluppano le intuizioni più all'avanguardia della ricerca. Con il loro alternare freddezza ed emozione, con i loro richiami all'astrazione storica e alla nuova astrazione americana, con la continua (ma al contempo negata, visto che l'autore non si discosta dalla pittura e non sposa i nuovi mezzi forniti dalla tecnologia) generazione d'interferenze tipiche dei pixel e dello schermo informatico, le opere di Vescovi tentano d'aprire una via italiana a quella linea pittorica che, più di ogni altra, ha raggiunto picchi e profondità durante la seconda parte del Novecento. Fatte tutte le debite proporzioni, ma riconosciuto il coraggio di un esercizio senza rete messo in piedi proprio quando avrebbe potuto fermarsi a tesaurizzare un trend e uno stile oramai avallati da critica e mercato, l'artista ha introdotto nella realtà e nella storia pittorica del nostro paese un eclettismo tecnico e uno spettro di soluzioni degni dei lavori d'un Gerhard Richter e d'un Ross Bleckner. Ha reso complessa la visione, ha recuperato ispirazioni lontane e diverse, s'è allontanato da quella banalissima strutturazione per generi che sta minando come un cancro la nuova figurazione. Ha contaminato l'universo dei quadri e dei dipinti, da sempre conservatore e tradizionalista ante litteram, anche quando dichiaratamente innovativo, col germe della rappresentazione contemporanea, fatta di zapping, di sovrapposizioni, di sezionamenti, di ricostruzioni postume. Oggi Vescovi costringe lo spettatore a confrontarsi con la pittura e non col soggetto raffigurato, lo obbliga a valutare l'idea globale della ricerca e non la piacevolezza o meno di una o dell'altra opera, mette in un cantuccio le soluzioni per concentrarsi sui problemi dell'arte. Se la maggior parte della pittura attuale s'impegna per edificare l'icona – sia questa generata dalla realtà, dalla letteratura, dal fumetto o dalla pubblicità – l'autore milanese preferisce smontarla, in una specie d'esplorazione quasi fanciullesca dei meccanismi che fan muovere il giocattolo. Il risultato finale e l'unità della rappresentazione non contano più, non hanno più valore il significato del soggetto, la sua storia, la piacevolezza dei tratti. Quello che conta, ciò su cui Vescovi si concentra ossessivamente, sono gli elementi della costruzione, i pilastri portanti che reggono l'impalcatura dell'immagine. Il colore puro e timbrico, le linee ortogonali del disegno, le campiture trasparenti e velate, i flash rubati alla realtà sono rigidamente separati tra loro all'interno delle opere, e l'occhio dello spettatore non può evitare di notare l'idiosincrasia apparente tra i diversi elementi. Tutto si muove e vibra nel tentativo di andare a posto, di fondersi mirabilmente in un'immagine compiuta e soddisfacente, ma l'artista blocca la rappresentazione un attimo prima che questo avvenga. Affinché in scena non vadano le conquiste della pittura, i suoi soggetti edulcorati e piacevoli, ma una soddisfacente e completa simbologia del dipingere.

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