IL BELLO DELLA BELLEZZA

di Fabio Migliorati

Una mostra intitolata Flowers non può che richiamare il concetto di natura Morta e, quindi, essere inserita nella scia di una secolare tradizione artistica. La "natura Morta", "nature Inanimée", "Bodegón", "Stilleven", "Stilleben", "Still Life" - il termine compare in Europa nel tardo Rinascimento dopo che per gli antichi valeva l'uso della parola "Xenia", seppure meno generico, più circoscritto – è un fenomeno originale che trova il proprio apice fra Manierismo e Barocco, ma di cui ben prima, già nel '600 e poi intorno alla metà del '400, s'incontrarono rispettivamente prodromi orientali e italiani/mitteleuropei, con riferimento alla cultura cinese (ikebana) e a quella ellenistica (doni ospitali). L'opera è la rappresentazione del mondo esterno in una coerente e simbolica unità, la quale si manifesta nell'isolamento di un gruppo espressivo attraverso la forma della scena che diventa entità concettuale, per la possibilità di ritenere ora il soggetto inanimato protagonista e non più solamente corredo dell'umanità illustrata. Gli affreschi di Taddeo Gaddi, le tarsie dello studiolo di Federico da Montefeltro a Urbino, il coro di Santa Maria in Organo di fra' Giovanni a Verona, oppure certi oli di Roger Van der Weyden, Hugo Van der Goes, Petrus Christus – senza pensare al tema dell'Hortus Conclusus, il cui senso è molto più simbolico – raccontano di questo: di una maniera che presto diverrà Maniera.
Detto tipo di raffigurazione condiziona il rapporto con le cose (quanto il ritratto, quello con le persone; il paesaggio, con la natura; gli interni e il costume, con la casa e la vita in famiglia), rendendo fermo, immoto il carattere dell'oggetto rappresentato. Si tratta di un'indagine del mondo della natura, ma tanto del «vero» quanto del «fantastico»: da un lato Dürer, Jacopo Ligozzi, l'Histoire naturelle di Georges-Louis Leclerc (che parte da Linneo e, in quarantaquattro volumi, organizza la pratica della conoscenza naturale illuministica); dall'altro Bruegel, Bosch, Arcimboldo, Goya, Max Ernst, Magritte.
La fortuna del nuovo genere si deve alla cultura borghese "del magazzino", per cui alla considerazione positiva dell'oggetto s'aggiunge un valore economico (ricondotto adesso a quella misura che è il denaro).
La tipologia della natura Morta diventa quindi merce tra le altre, mentre l'artista si specializza (basti Mario nuzzi, detto "de' fiori"): l'opera firmata con o senza autografia. Una di queste specializzazioni è appunto la pittura dei fiori, soggetto caso alla simbologia biblica e alla letteratura provenzale come attributo alla misericordia divina o alla santità e bellezza della Vergine cristiana – anche sulla base del pregio di cui godeva in ambiente classico, quale segno pagano di rinascita stagionale. Dal Medioevo, ma soprattutto dal Rinascimento, si elabora una simbologia applicata al mondo dei fiori e della frutta: le fonti sono la Bibbia, i Vangeli apocrifi (di Giacomo, Pseudo-Matteo, Pseudo-Melito), la latinità (Metamorfosi di Ovidio, naturalis Historia di Plinio, De Rerum natura di Lucrezio, i trattati di agricoltura di Catone, Varrone, Columella), la patristica (Hexaemeron di Sant'Ambrogio, Etymologies di San Isidoro di Siviglia, De Universo di Rabano Mauro, Gregorianum di Garnerio di San Vittore, Repertorium e Reductorium Morale di Pietro Bercorio).
nasce, così, un tratto distintivo in comune con i risultati parossisticamente arbitrari dell'era contemporanea, perché il senso metamorfico del fiore assume via via il rilievo che tutt'oggi conserva. Il fiore è lo strumento elastico e variabile di un codice simbolico, laico o religioso: ornamento femminile della lingua galante, elemento del "giardino dei semplici", ma anche droga dell'erbario monastico ed emblema religioso (si pensi al giglio delle valli o dell'Annunciazione e alla rosa mistica della letteratura sapienziale). Dal vivaio d'amore, devoto o cortese, alla fusione dell'umanista e del naturalista nello studio botanico. Perché quel tratto si sposta dal genere Cinque-Seicentesco, alla bottega o al singolo artista del Settecento, per cambiare di nuovo cent'anni dopo grazie ad un concetto basilare: la composizione silente è adesso dipinta come qualsiasi altro soggetto, animato e inanimato; in un solo stile – quello di fine Ottocento (Cézanne, Van Gogh, Matisse) e di tutto il novecento e oltre (Picasso e Braque, Morandi e De Pisis, Georgia O'Keeffe, Warhol, Mario Madiai, Guccione, Ventrone, Pozzati, nicola De Maria, Marc Quinn, Donald Baechler...). Oggi, nel 2010, i fiori sono anche quelli di Flowers, opera di quattro artisti: Corrado Bonomi, Felipe Cardeña, Fulvio Di Piazza, Dany Vescovi. Flowers significa un lavoro che si deve confrontare implicitamente o esplicitamente con l'esperienza di chi, nel tempo, nell'arco di oltre cinquecento anni, ha concepito artisticamente la natura e l'ha fatta nascere o rinascere tramite la sua morte. E questo è vero benché i quattro artisti non si esprimano costruendo una «codificata tipologia» di fiori dipinti o scolpiti o comunque ritratti; Bonomi, Cardeña, Di Piazza, Vescovi hanno superato la composizione di steli recisi e posizionati in qualsiasi vuoto riempibile. Tutti loro lavorano sull'idea dell'antico modello del vero (più o meno compiuto e realizzato) e lo usano esercitandosi in forme ricavate nello spazio delle tre dimensioni (Bonomi), del collage di fotografie (Cardeña), della fantasia applicata al tentativo di scenografia vegetale (Di Piazza), dell'immagine in stile digitale prestata alla responsabilità pittorica (Vescovi).

La natura vive, nell'opera di Corrado Bonomi (novara, 1956); vive perché non è mai morta, quantunque non sia «naturale» ma «d'artificio». natura diviene una nuova realtà: realtà fatta di oggetti recuperati alla loro attività primaria grazie all'uso del rifiuto o al riuso di pezzi, parti, frammenti di strutture del nostro quotidiano. La materia dell'opera, il suo mezzo significa adesso un'altra esistenza; è la forma con cui quell'opera si realizza, ossia realizza la propria disposizione estetica. E questo con la serietà giocosa di un'ironia rigorosa: a rivelare la capacità linguistica di un significante considerato innaturalmente, perché l'operazione è concettuale, certo, ma istruisce una dialettica dell'identità che spazia oltre il discorso sull'arte, per occuparsi della relazione di prossimità teorica e pragmatica fra oggetto e soggetto. La forma del testo è stabilita dalla sua funzione o dalla sua definizione, quindi prestabilita dalle caratteristiche che essa ha assunto o assumerà; il suo contenuto, allora, diventa la rappresentazione di qualche sua proprietà, spesso legata a quello per evidenza, metafora o metonimia applicata al peso sociale, culturale, psicologico che esercita. I materiali dell'opera sono plastici, secondo il criterio espresso da un parallelismo natura/cultura che comincia con la trasformazione di un idrocarburo in carburante e termina con quella di un ruolo tecnico in espressione artistica. L'arte è conversione, destrutturazione della logica kitsch (quale predominio, sproporzionata considerazione dell'oggetto) in equilibrio naturalità/artificialità (quale identificazione per servire ancora la causa della bellezza). L'opera d'arte concerne, quindi, la ritualità della cosa di tutti i giorni, soprattutto quando si spinge al riferimento simbolico stretto intorno ai tabù, alle fobie, le nevrosi del rutilante mondo occidentalizzato – modernamente disturbato e sempre più connotato, ormai, secondo i due mali del millennio: la velocità e il rumore.

Come se fosse il motto di una gang sudamericana, Felipe Cardeña (Balaguer, 1979) si vota al principio di "Flower Power". Egli sfrutta l'immagine della natura per dichiararla una sorta di contesto emanato, neutro per preziosità; un contesto che ospita la cultura contemporanea, i cui simboli sono volti, epiteti, cose, animali, spesso personaggi storici, religiosi o, più spesso, icone della nostra società. I protagonisti del mondo dello spettacolo e della politica, più o meno importanti ma sempre in primo piano, diventano clienti di un presente floreale simbolicamente decorativo. Cardeña affoga detti soggetti in questo mare di fiori singoli, ritagliati – lo vedo – da riviste patinate e presenti, così, sullo sfondo del messaggio; si, perché sgorga da qui il senso dell'intervento: è l'urgenza di un messaggio. Dalla mania compulsiva e dall'ossessione seriale, scaturisce, con mania compulsiva e ossessione seriale, la critica alla mania compulsiva e all'ossessione seriale (dell'ambiente socioculturale contemporaneo). Felipe è graffiante, sagace, perspicace; sa esprimere dileggio e canzonatura: in iconografici commenti sulla realtà stereotipata di quei tanti sistemi che costituiscono il Sistema. E ciò con la finta sensualità di mille fiori, i quali , dal basso del loro "odierno stiacciato", giocano a recitare la parte del silenzio, a riassumere il legame con quella natura Morta di secoli fa (quando tutto forse era meno vivo, ma, paradossalmente, più vero). La regola semiotica è quella del contrasto che evidenzia una centralità citazionista da approvare o denigrare nell'ornamento generale, nella campitura pronta al verso fumettista: come un tessuto vivo che evoca la «preparazione» della superficie; e accoglie la profana sacralità mediatica dell'idolatria diffusa, officiando una celebrazione del simulacro riconosciuto. Dal kitsch al social pop.

Poi, Fulvio Di Piazza (Siracusa, 1969): artista che cambia direzione e percorre la via della fuga da tutto questo. La sua opera discende da una tradizione di particolare natura Morta che si riferisce a un'impostazione naturale e fantastica al contempo. Il senso del suo lavoro sta nell'ambiente, o, meglio, nell'ambientazione: l'opera si giova non poco di strutturazioni chimeriche e immaginifiche, visionarie e fumettiste; poco di quelle surrealiste. Di Piazza, tuttavia, più che improvvisare pare dipingere con impulso formativo: egli crea mentre crea – diresti – quasi mosso a disegno di pulsione pareysonana, senza essere sospinto da istinto ideativo realizzato. L'arista insegue e raggiunge l'immagine di una vita fiabesca e incredibile; la riversa sulla tela e, mentre la connota di elementi esistenti e no, scopre che non sono poi così importanti. Ciò che conta è, in effetti, l'atmosfera, l'aria che respira chi osserva l'opera, perché chi lo fa è sì preso dai particolari, dall'interrogativo sulla loro specie e sul loro genere, come anche dal dubbio che siano veri, ma è più preso dal coinvolgimento di quel mondo; sedotto, l'osservatore, da una dimensione che porta lontano (indietro e insieme oltre rispetto alla nostra, a quella del presente). Sta qui il fulcro del sentire dell'artista. La ricetta? I nani e le rane di Faustino Bocchi ed Enrico Albricci; i colori di Walt Disney; giusto un pizzico di cielo pseudo-magritteano. E un ingrediente segreto... che dà voce sincera al barocco tutto personale dell'artista siciliano.

Dany Vescovi (Milano, 1969) crede infine che si possa ricavare fascino e incanto dalla puntualità grafica del mezzo tecnologico, ma usando, per questo, la forza della pittura. L'artista parte dalla fotografia per approdare a un modello da dipingere, pur regalando all'opera alcune peculiarità visive che il dispositivo garantisce. Questione di effetto. Prima la natura rubata al vero dalla scienza, poi la copia del furto, cioè un'altra, una seconda copia; e ciò con la persistenza di una decrittazione di sapore digitale che la pittura riesce a «riscaldare». Vescovi non rinuncia a trascinarsi dietro la tradizione del bello; un bello contaminato dalla modernità, migliorato e non soltanto alterato. Vescovi è un "fiorista" contemporaneo, ma sa trasformare il soggetto dei fiori in un'imparzialità di gusto astratto, anzi, di derivazione astratta; il suo fiore si slega dall'immagine naturale: è vero e virtuale insieme, proprio grazie al criterio di quella deformazione che sembra un effetto informatico. Questione di forma delle immagini, più che di forma! Il peso ortogonale di quell'esito, infatti, il suo trattamento geometrizzante, arriva a identificarsi con una costante striatura verticale che sa di compressione cromatica, di pulita riduzione a un abito originariamente mentale. La natura, forse, non è più quella dimensione in cui nasce il motivo del fiore (o, meglio, adesso lo è in senso strategico): la fotografia ferma, ma è ancora la mano a riprodurre ciò che la mente vede – sia simbolo di una ritmica della vita, dell'esistere; sia metafora dell'identificazione tra micro e macrocosmo.
Flowers per dire che i fiori saranno sempre fiori. E che l'arte del Duemila può affrontare tematiche vecchie di mezzo millennio, senza per questo essere anacronistica. Flowers per pensare al confronto con l'espressione personale e culturale di un tempo: dopo secoli d'arte e di natura, secoli d'umanità e di mondo...

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